Archivio dei diari / 27 gennaio 2019
newsletter n. 380

Una memoria da esercitare ogni giorno

Il 27 gennaio non è un giorno qualunque.
Non lo è certamente per quello che si celebra oggi, ma non lo è soprattutto per quello che accadde 74 anni fa e che oggi, appunto, siamo chiamati necessariamente a ricordare. Il 27 gennaio è senza dubbio una data indelebile nella memoria europea, un simbolo della memoria sull'Olocausto: una data che richiama quel 27 gennaio del 1945, quando le truppe sovietiche varcarono l'ingresso del campo di concentramento di Auschwitz, compiendo di fatto quel primo passo che rivelò al mondo le atrocità inenarrabili fino ad allora compiute dal Terzo Reich. È così che con la risoluzione 60/7 del 2005 le Nazioni Unite hanno istituito il Giorno della Memoria; il nostro Paese si era però già espresso in tal senso qualche anno prima: l'Italia infatti istituì questa ricorrenza già nel 2000, con la legge n. 211 del 20 luglio, «al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati [...] e affinché simili eventi non possano mai più accadere».

Mai più accadere
Quel "mai" che sembrava metterci al riparo da possibili ricadute, da nuovi periodi oscuri e da crimini atroci che pensavamo irripetibili sembra oggi non bastare più, a 70 anni da quella immane tragedia. Nuovi focolai di violenza e di odio si accendono in ogni parte d'Europa e ci impongono di vigilare con ancora più forza e ancor più consapevolezza di quanto si sia mai fatto: più forte che mai deve quindi essere la nostra azione di memoria, un esercizio quotidiano che ci metta al riparo dal ritorno di quello che - non dovremmo mai dimenticarcene - è stato il periodo forse più buio del nostro continente. 
Un'azione quotidiana di memoria che oggi vogliamo rendere ancor più significativa leggendo insieme a voi le parole di Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz. Terracina, come molti di voi ricorderanno, fu ospite al Premio Pieve Saverio Tutino nello scorso settembre, quando tutta la piazza si alzò in piedi e si strinse a lui con un commosso applauso: a lui, a Liliana Segre, Sami Modiano, alle vittime delle leggi razziali nell’ottantesimo anniversario dalla promulgazione e ai testimoni sopravvissuti della Shoah avevamo dedicato il Premio Città del diario 2018.
Le sue parole e quelle degli altri testimoni siano oggi la luce da opporre all'oblìo che aleggia ovunque intorno a noi.
 
Piero Terracina al Piccolo museo del diario - foto di Samuel Webster
 
Il treno partì; ancora due giorni di viaggio ed arrivammo alla stazione di Auschwitz. Ancora fermi, chiusi nei vagoni fino al pomeriggio del 23 maggio. Dalle feritoie ai lati del vagone si vedevano in lontananza le ciminiere dalle quali uscivano fumo e scintille.  Nel pomeriggio del 23 maggio il treno si mosse ed entrò all’interno del Lager di Birkenau. Vedemmo dai carri che le SS erano schierate tutte con un bastone in mano ed un cane al guinzaglio. Aprirono tutti i carri contemporaneamente e le SS iniziarono a dare ordini gridando; alcuni prigionieri facevano da interpreti. Gli ordini urlati non venivano compresi e i pochi interpreti cercavano di trasmetterceli. Volevano che lasciassimo i bagagli sulla banchina. Volevano che formassimo due file: una di uomini ed una di donne. Altri prigionieri erano addetti ai nostri bagagli lasciati sulla banchina della “Bahnrampe” dove arrivavano i treni. Questi prigionieri facevano parte del Kommando Canada con il compito di raccogliere gli oggetti personali dei nuovi arrivati. Nelle baracche del Kommando Canada venivano aperti i bagagli e gli oggetti smistati. “Canada”, con allusione alla terra dell'abbondanza, significava lì annientare totalmente il popolo ebraico.
Intanto cominciarono a colpire con i bastoni e ad aizzare i cani contro chiunque si attardasse. Uno degli interpreti si avvicinò e mi chiese l’età: “Ho compiuto 15 anni a novembre”. “Ti domanderanno l’età, tu rispondi che hai 18 anni”. “Perché devo dichiarare 18 anni se ne ho 15”? “È importante; non lo dimenticare”. Ho ritrovato la mia scheda nell’archivio di Auschwitz e ne conservo la fotocopia; c’è scritto: Piero Terraccione, paternità Giovanni, il numero in alto a sinistra del foglio è: A 5506 (il numero che mi venne tatuato sull’avambraccio sinistro), anni 18, studente. Quel prigioniero mi ha salvato la vita: avessi dichiarato i miei 15 anni sarei stato mandato a morire insieme ai bambini.
La confusione era indescrivibile: le urla di quelli che venivano colpiti dai bastoni o attaccati dai cani, quelli che non vedevano più i loro familiari li chiamavano a gran voce correndo da una parte all’altra. Papà, nonno e zio, per evitare di essere colpiti, andarono subito a mettersi nella fila degli uomini che si stava formando. Trovai i miei fratelli e insieme andammo alla ricerca di mamma e di Anna che avanzavano verso la fila delle donne, molte con i loro piccoli in braccio o per mano. Mamma aveva capito tutto, piangeva, aveva il volto bagnato dalle lacrime. Ci abbracciò tutti; ricordo il mio viso contro il suo che si bagna delle sue lacrime. Le SS con i cani ed i bastoni non erano distanti. Mamma ebbe paura per noi:  “Andate, andate, fate presto” e aggiunse delle parole che non capii ma chiesi ai miei fratelli. Aveva detto: “Non vi vedrò più”. 
Si formarono le due file ed iniziò il massacro. Davanti alla fila delle donne, alle quali ordinarono di avanzare, un gruppo di ufficiali e soldati delle SS. A destra mandavano tutte le donne anziane o claudicanti dopo quel viaggio di sette giorni stipate nei carri; tutte le mamme che portavano i loro figli in braccio o per mano. A sinistra poche ragazze giovani ancora in forze. Fu così che vidi separare mia sorella Anna da mamma. Arrivarono dei camion dove fecero salire le donne che non erano in grado di camminare e i bambini; poco dopo scomparvero alla nostra vista. Poi la fila degli uomini: la gran parte, compresi mio padre e mio nonno, nella fila di destra; gli altri, compresi i miei fratelli, mio zio e io, nella fila di sinistra. Quelli nella fila di destra, lo sapemmo dopo, erano destinati a morire per gas ed essere ridotti in fumo e cenere nei forni crematori. Ogni pochi passi papà si voltava, alzava una mano per salutarci. Certamente anche lui aveva capito.

Piero Terracina, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz
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